23.3.14

Percorsi di fotografia - Riproducibilità e imitazione della realtà

Su SkyArte tra le tante, interessanti, proposte ce ne sono due riguardanti la fotografia. Fotografi, una serie che affronta in ogni puntata un artista differente e Photo - L’arte della fotografia, che approfondisce la materia con un po’ di storia e soprattutto tanti esempi. In quest’ultimo le argomentazioni sono rese più interessanti grazie all’uso di qualche trucco grafico per cancellare elementi dell’immagine presa in esame e sviscerarne i segreti della composizione. Ho deciso quindi di dedicare un post (forse seguito da altri) alle cose più interessanti, ricordandovi anche della mia collezione di foto su tumblr.

Quando si parla di fotografia digitale non manca mai l’opinione sprezzante di chi ne condanna l’immediatezza e la manipolazione. È onesto ammettere la difficoltà maggiore che si incontrava con l’analogico e la conseguente abilità dei vecchi maestri: veri artigiani del processo di post produzione e stampa in opposizione alla facilità dello scatto moderno trapiantato negli smartphone. Per quanto riguarda l’immediatezza c’è poco da obiettare se non che gli errori (di messa a fuoco, grana troppo evidente, deformazioni grandangolari, composizione non corretta e così via) sono molto più penalizzanti di un tempo. È però sbagliato credere che il ritocco dell’immagine sia qualcosa di avulso dalla realtà della pellicola. Ma procediamo con ordine.

Nel 1839 William Henry Fox Talbot presenta i suoi disegni fotogenici o sciadografie (dal greco skià e gràphein che significa letteralmente “disegnare l’ombra” in opposizione al successivo fotografia, “disegnare con la luce”).

Sciadografia di Talbot
L’oggetto da ritrarre veniva messo a contatto con una superficie sensibile (inizialmente un foglio di carta immerso in soluzione di sale da cucina e nitrato d’argento) ed esposto al sole. Se ne ricavava così un’immagine in negativo dell’oggetto: quasi un’ombra, un’impronta di quella presenza reale. Come un fantasma, però, era destinata a scomparire col tempo in quanto la reazione alla luce continuava, cancellando infine quella traccia. Solo grazie all’iposolfito di sodio il cui utilizzo fu suggerito da John F. W. Herschel si riuscì a fissare quelle immagini fermando l’azione della luce. Negli stessi anni Louis Daguerre aveva creato i suoi primi dagherrotipi con l’aiuto di Joseph Nicéphore Niépce (a cui si deve la prima “fotografia”).

Daguerre, Boulevard du Temple. La prima foto in cui compare in maniera chiara un essere umano (in basso a sinistra)
Questi primi esperimenti avevano in comune la creazione di un’immagine non riproducibile: da un punto di vista di impatto sociale più vicina alla pittura che alla fotografia moderna. Il passo in avanti decisivo si ha con l’invenzione del calotipo da parte di Talbot, che rielaborò la sua precedente tecnica dando vita al negativo e permettendo così la riproducibilità dell’immagine catturata.

La possibilità di reiterare a piacimento la forma artistica segna forse il punto di maggiore distacco dalla pittura in un contesto in cui invece i due mondi figurativi vivono di continui scambi, non necessariamente unilaterali (pensiamo ad esempio agli iperrealisti in cui il dipinto sembra cercare la somiglianza con la fotografia più che con la realtà). La strada intrapresa dal fotografo può essere quella della descrizione fedele dell’oggetto rappresentato, dell’introduzione dell’elemento fantastico o ancora del racconto. In ogni caso la manipolazione dell’immagine è un elemento importante nel flusso di lavoro dell’artista ben prima dell’era digitale, spesso resa necessaria dai limiti degli apparecchi utilizzati. A questo proposito è interessante osservare il chiostro di St. Trophime fotografato da Édouard Baldus.

Baldus, Chiostro di St. Trophime


Baldus interviene col solo intento di approssimare quanto più possibile il risultato fotografico a ciò che aveva davanti al momento dello scatto. Non potendo altrimenti raggiungere la composizione, la profondità di fuoco e l’illuminazione desiderata, decide di unire dieci negativi tra loro (quindi più scatti) e dipingere parte del soffitto, ottenendo così un risultato più coerente con la realtà. Si spinge oltre, sia nella tecnica che nell’ausilio delle conoscenze pittoriche, Oscar Gustave Rejlander che per realizzare il suo The Two Ways of Life unisce una trentina di negativi, preparando con grande maestria i diversi scatti (bisogna pensare alla difficoltà di mantenere le proporzioni tra i diversi personaggi) e utilizzando fondali dipinti. Certamente una sfida o un atto d’amore verso le grandi opere del Rinascimento.

Rejlander, The Two Ways of Life

Uno dei maestri di questa tecnica, detta stampa combinata, fu Gustave Le Gray di cui ricordiamo in particolare The Great Wave in cui la porzione di cielo nuvoloso fa parte di un negativo differente da quello della costa e del mare (forse uno scatto realizzato in tempi e luoghi differenti): solo in questo modo era possibile ottenere la giusta esposizione dei diversi elementi.

Le Gray, The Great Wave

Le Gray fu anche uno dei capostipiti del Pittorialismo, un movimento della fine del XIX secolo, nato con lo scopo di dare alla fotografia il giusto riconoscimento e portarla al livello della pittura e della scultura. In un tempo in cui la fotografia veniva mal considerata per il suo essere frutto di una semplice azione meccanica di uno strumento, Le Gray pose l’accento sulla manualità e l’intervento dell’artista grazie all’utilizzo della stampa combinata e alla ricerca di atmosfere e suggestioni originali.
Una visione totalmente opposta a chi al giorno d’oggi accusa l’intervento in post produzione di togliere valore all’arte fotografica. Una cosa è certa, tra la fotografia e la pittura c’è sempre stato un confine piuttosto sfumato, segnato da reciproche influenze, e attualmente in questa zona liminale sembrano convivere la fotografia e l’arte grafica.

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