5.3.17

Ogni cosa è illuminata, Jonathan Safran Foer



4/5✮















A 22 anni Jonathan Safran Foer parte per l’Ucraina senza dire nulla ai suoi genitori. L’idea iniziale è quella di ampliare e poi pubblicare la sua tesi sul nonno materno, ma forse c’è un’urgenza quasi istintiva che lo porta a mettersi in viaggio senza le dovute ricerche preliminari.
 “One of the great things about writing is that you get a chance to see who you are. I wrote so many things that I did not know I cared about before I wrote the book – like being Jewish, like family history – then, you look at the evidence and it is like – I am not who I thought I was. I think we are often wrong about who we are. One of the nice things about writing is you get to look at your unguarded self.„
In mano ha una foto di suo nonno e della donna che lo salvò dai nazisti. Viene accompagnato da un tale Alex con cui non lega molto (nessuna parentesi comica, nessun cane). Cerca Trachimbrod senza successo (niente Lista P./Augustine, niente scatole). Non trova assolutamente niente di utile (in fondo, nella vita reale, con solo una foto in mano, cosa poteva aspettarsi?).
“Of course I didn’t find her! I was so naive – it’s like walking into New York City with a photograph and asking people if they recognise the person. It’s ridiculous. I was completely ill-prepared for that trip. I did no research at all.„
Nonostante questo nulla, qualcosa si smuove dentro lo scrittore. Rientrato a Praga, dove stava passando l’estate, inizia a scrivere il suo primo romanzo. Una storia del tutto inventata, eccetto le premesse iniziali appena menzionate. A 22 anni Foer è nel pieno di una fase esistenziale che lo porta a farsi domande sul suo futuro e di conseguenza sul suo passato.
“I wrote this because it had to do with what was going on in my life; I was 22, on the verge of adulthood and independence. I was thinking a lot about who I was going to become, which I guess always begs the question – where did I come from?„
Questo interessamento alle proprie origini famigliari e religiose ha una natura emotiva piuttosto che razionale e prende la forma di un accumulo di sensazioni più che di informazioni. Ne deriva un racconto surreale e bipartito (con un po’ di ironia, potremmo dire bipolare). Le due anime del romanzo hanno uno stile totalmente differente, ma in entrambi i casi definito da una carica sarcastica, un umorismo caustico miscelato senza timore a momenti di estrema serietà (“Il buffo è l’unico modo veritiero di raccontare una storia triste”). Altrettanto ambiguo è il giustapporsi di realtà e finzione. Basti pensare a come Alex chieda spesso a Jonathan di modificare il racconto, a come si pavoneggi raccontandosi diverso da come è realmente, a come l’intera storia dello Shtetl sia tanto intrisa di fantasie e lirismo da rendere impossibile discernere alcun dato oggettivo (a partire dall’incidente in cui “Trachim B fu bloccato, o non lo fu, dal suo carro contro il letto del fiume Brod”). Eppure l’origine dell’opera è così intimamente concreta per l’autore, che sente la necessità di ancorarla in qualche modo alla realtà, dando il suo nome a uno dei personaggi. Questo espediente risulta essere un ulteriore elemento di confusione nel momento in cui ci si rende conto che il vero alter ego dell’autore piuttosto che l’anonimo ebreo è il vivace Alex. Quest’ultimo porta con sé un inspiegabile senso di colpa primitivo, carico del peso dei peccati del nonno e che rispecchia il disagio di Foer nei confronti del suo passato e delle sue origini ebraiche (“L’unica cosa più dolorosa dell’essere obliatori attivi è essere rammentatori inerti”). Pur da non praticante riesce a sentire la connessione con un mondo e una Storia che gli sono lontani e allo stesso tempo si fanno sentire ad un livello profondo, viscerale: è il sesto senso degli ebrei, la memoria.
“[…] per gli ebrei la memoria non è meno primaria della puntura di uno spillo, o del suo argenteo luccichio, o del gusto del sangue che sprigiona il dito. L’ebreo è punto da uno spillo e ricorda altri spilli. È solo riconducendo la puntura dello spillo ad altre punture - quando sua madre tentava di aggiustargli la manica con il suo braccio dentro; quando le dita di suo nonno si addormentarono accarezzando la fronte madida di suo bisnonno; quando Abramo saggiò il coltello per essere sicuro che Isacco non sentisse dolore - che l’ebreo appura perché faccia male. Quando un ebreo incontra uno spillo, domanda: Che cosa mi ricorda?„
In Alice attraverso lo specchio la regina bianca urla di dolore prima di pungersi con la spilla e non quando effettivamente ciò avviene. Quando Alice le chiede perché non stia urlando, le risponde che lo ha già fatto abbastanza prima. In un certo senso gli ebrei al contrario, nella visione di Foer, non smettono mai di urlare. Senza attualizzare quell’urlo primitivo non possono esperirlo correttamente nel presente. I ricordi sono, però, anche delle catene che imprigionano nell’immobilità dell’apatia (e solo ricordi rimarranno di Trachimbrod).
“Gli abitanti del villaggio diventarono incarnazioni di quella leggenda che avevano ascoltato tante volte, quella del folle Sofiowka, avvolto nella fune bianca, e usavano il ricordo per ricordare il ricordo, bloccati in una sequenza di rievocazioni, sforzandosi invano di ricordare un principio o una fine.„
Bisogna imparare dal passato e per farlo è indispensabile ricordare, ma il ricordo non può essere un atto passivo di ricezione. Al contrario, la memoria deve configurarsi come processo attivo di trasformazione. Una reverse heredity, come l’ha chiamata lo stesso autore, ben descritta dall’immagine della Meridiana, dio metamorfico che bronzatura dopo bronzatura diventa più simile ai suoi discendenti che all’uomo da cui era originata.
“[…]ho riflettuto molto sulla nostra rigida ricerca, mi ha dimostrato come ogni cosa sia illuminata dalla luce del passato… dall’interno guarda l’esterno, come dici tu alla rovescia…„
La stessa Brod che sogna la distruzione futura dello Shtetl ma non può intervenire in alcun modo, è il simbolo della necessità di un dialogo proficuo tra ciò che è stato e ciò che è. Al raggiungimento di questa consapevolezza si conclude il percorso formativo del vero protagonista del romanzo, Alex, che dopo aver “trovato la memoria” ha la forza di proteggere il suo futuro scacciando il padre. E in questa sintesi dialettica di presente e passato, le due anime (e le due parti) del libro svelano il comune punto di arrivo. La scrittura di Foer regala momenti di altissimo lirismo che purtroppo sfociano spesso in sequenze inutilmente prolisse e in costruzioni ingenuamente autocompiaciute e dal sapore artificioso. L’intero discorso sull’Amore si perde in una struttura poco equilibrata che ne indebolisce il significato profondo: esso è prima di tutto amore per la famiglia come sede abitativa e fisica della memoria. Presente e passato si legano indissolubilmente nel genoma grazie al potere ancestrale dell’eiaculazione. Si rinuncia a qualcosa di sé (l’Amore è rinuncia, l’uomo di Kolki perde in parte l’udito) in favore di qualcosa di più grande ed immortale: la discendenza come ideale. La vita prende senso solo quando Amore e memoria viaggiano nella stessa direzione: il futuro.

Fonti:
theguardian.com
threemonkeysonline.com
gradesaver.com (Un’analisi dell’intero romanzo, capitolo per capitolo)

31.3.16

Il paese dei coppoloni, Vinicio Capossela







3/5 ✮











 
Il linguaggio di Vinicio Capossela ha una pasta densa e calda che ha un fascino particolare. Una firma d’autore. La sua voce trasforma in epica la vita di piccoli personaggi di paese. Una teoria di esseri stravaganti: fantasmi, narratori, combattenti, stregoni, curatori, bestie e diavoli. Il tutto mescolato a miti greci e locali, parabole religiose e leggende laiche. Vinicio si fa cantore di questa realtà da lui tanto amata, insieme costruendo quest’epica popolare ed edificando una propria storia personale e intima, “nel tentativo di portare la menzogna della realtà alla verità dell’immaginazione”. La necessità di tornare per ritrovarsi, la ricerca dei Siensi di un autore che sembra denunciare un senso di vuoto interiore, novello Ulisse alla ricerca della sua patria spirituale. Allo sbando tra musica e alcol il cantastorie Capossela cerca di tracciare un percorso che leghi insieme le sue origini, le sue passioni, i suoi vuoti e i suoi pieni; e non può che farlo raccontando. In copertina il quadro di Rocco Briuolo mostra la relogia, l’orologio le cui lancette si fermarono durante il terremoto del 23 novembre 1980, “l’ora in cui finì il mondo della civiltà contadina” segnando il tempo dell’immobilità. Un tempo apparentemente fermo, eppure da preservare, perché immobile su suolo cedevole.
Il paese dei coppoloni rimane, però, un capolavoro mancato. Alle qualità stilistiche dell’autore non si è accompagnato un editing deciso, capace di porre limiti e mettere ordine in un libro troppo dispersivo e frammentato, a volte ripetitivo (anche in rapporto ai forti echi dei libri precedenti e delle sue canzoni) e con sequenze che si sarebbero potute tagliare senza troppi patemi.

Note aggiuntive:
Il paese dei coppoloni è anche un film, omonimo, e un album, Le canzoni della Cupa. La pellicola mostra poca solidità e non riesce ad essere indipendente dal libro, ma è interessante per chi voglia scoprire i volti reali di alcuni personaggi del romanzo e ritrovare i luoghi narrati.

Fonte citazioni:
Leggi le altre mie recensioni su Goodreads e Anobii.

13.12.15

The Fantastic Flying Books of Mr. Morris Lessmore

Vincitore come miglior cortometraggio di animazione nel 2012.

Adesso è anche un libro con relativa app per la realtà aumentata.