11.6.10

Al Faro

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Romanzo sull’uomo (in senso astratto) e su una donna (concretamente, una persona). Da una parte l’essere umano descritto in tutta la criticità dell’esistenza. Dall’altra la signora Ramsay, immagine speculare della madre di Virginia, o meglio del ricordo (questo è un dettaglio importante) che una ragazzina di tredici anni ha conservato fino all’età adulta. Un ricordo piuttosto chiaro se la sorella Vanessa ha da dire: “A me sembra che tu abbia tracciato un ritratto della mamma che le somiglia più di quanto avrei mai creduto possibile”. Come un fantasma che prende vita sulle pagine di un libro. Apparizione di cui Virginia si libera con la rappresentazione stessa, rendendo visibile l’ectoplasma, dandogli forma, esorcizzandolo dalle proprie memorie e dal proprio subconscio. Ma non è il solo spettro di cui si deve liberare, ad affiancare la figura materna c’è quella paterna. Mentre la signora Ramsay porta equilibrio, salva dal caos, e con il potere di un dio che segue ignote regole può mettere fine all’armonia creata; il signor Ramsay è la divinità onnipotente del reale, della dimensione oggettiva, che si fa odiare e amare al contempo, generatore del disordine (dei sentimenti).
È attraverso queste due figure portanti, a cui si aggiunge il personaggio di Lily Briscoe (alterego della Woolf – Virginia la scrittrice, l’artista, la creatrice), che si costituisce un romanzo che la sensibilità dell’autrice trasforma subito in qualcosa di più della descrizione semiautobiografica dei protagonisti. Ci mette dentro tutto il mondo, l’umanità con le sue domande e le sue incertezze. È qui che entra in gioco il concetto di mancanza. Non più solo quella patita per il ricordo di qualcosa di cui si è privi, ma quella nascosta nel senso più ampio di incapacità.
L’essere umano immerso in questa vita che non capisce e non sa spiegare. L’impotenza delle parole, di tutte queste frasi, questi discorsi tra uomini che non riescono a comunicare veramente. La mancanza di una visione del vero, di un dialogo col vero (interiore) e del vero. Monologhi che si chiudono in sé stessi come un vortice che torna all’origine. Pensieri che percepiscono appena ciò che inseguono e non possono che cercarne una rappresentazione più fedele: la filosofia, la dedizione verso il prossimo, la pittura. E tutti subito pronti a ritirare, a nascondere questi loro tentativi così intimi, così privati. Si pentono di aver aperto per un attimo la loro mente agli altri. Chi l’aveva fatto con le parole, recitando una poesia, si volta intimidito, chi è di fronte a un quadro cerca di nasconderlo alla vista altrui. E tutti serbano questi tesori nel cuore e nella mente, monete da lucidare, da studiare, che non si possono mostrare. Nessuno potrebbe capire. Perché è ancora impossibile spiegare.
Le parole non servono, la comunicazione falsifica la verità a cui si ambisce. Una verità che può essere solo sfiorata con la metafora. Come nella seconda parte, quando Virginia Woolf crea “il più difficile e astratto brano di scrittura”* della sua carriera (nonché a mio avviso uno dei brani più belli della letteratura). Gli uomini sembrano messi da parte, relegati a spazi angusti dentro parentesi quadre eppure, in realtà, è tutto un racconto di questa umanità percossa dal tempo, interiorità riflessa nell’ambiente esterno.
Mentre l’estate si avvicinava, e le sere si allungavano, agli speranzosi, ai vigili, che passeggiavano sulla spiaggia, apparvero immagini le più strane – carni trasformate in atomi che il vento trasportava, stelle che guizzavano nei cuori, rupi, mare, nuvole, messi lì apposta tutti insieme per riunire all’esterno gli elementi dispersi di una visione interiore.
Quella visione che Lily riesce finalmente a raggiungere alla fine del romanzo.

*È lei stessa ad ammetterlo il 30 aprile 1926, come ci dice Nadia Fusini nell’introduzione.


P.s.
Avevo iniziato a leggere l’edizione Mondadori con titolo Gita al faro, che poi ho dovuto abbandonare a causa di una traduzione penosa che rende incomprensibile il romanzo (ma come si fa!!?) in favore dell’edizione Feltrinelli con titolo Al faro, con traduzione di Nadia Fusini. Scopro che anche la Mondadori nelle ultime ristampe usa questa traduzione.

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