22.2.09

Non solo Cool!

Molto tempo fa sentii parlare della Teoria delle finestre rotte (per maggiori informazioni: Wikipedia italia, Finestre rotte e teoria del contesto, Articolo approfondito su Wikipedia inglese, The Atlantic Monthly). Riassumendo (ma vi consiglio di leggere i testi linkati precedentemente), i criminologi James Q. Wilson e George Kelling arrivarono a formulare la tesi seconda la quale se consideriamo un edificio con una finestra rotta che non viene riparata per lungo tempo, sarà molto alta la probabilità che qualcuno frantumi altri vetri; se col passare dei giorni la situazione non viene risolta, è probabile che dei vandali facciano il loro ingresso nell’abitazione, casomai le daranno anche fuoco, e così via fino a cose più gravi… Secondo i due studiosi la cosa migliore per prevenire i crimini è risolvere i problemi piccoli. Questa teoria vede la sua attuazione, dunque, con un maggior controllo sui reati minori.
A mio avviso, però (così ha preso forma nella mia testa il ricordo di tali enunciazioni), non si tratta solo di reati, ma anche di gestione dell’ambiente. Non si tratta solamente di punire chi rompe la finestra, quanto di ripararne subito i vetri; non si tratta di multare chi butta la gomma o la carta per terra, quanto di tenere pulito il marciapiede. Naturalmente, i due approcci alla teoria (il mio e quello convenzionale) con i rispettivi metodi d’intervento vanno perseguiti in modo simultaneo, non si escludono a vicenda.
A questo punto, insieme al mantenimento decoroso delle città, entra un altro fattore in gioco: l’architettura. Quanto potrebbe fare l’architettura e quanto non ha fatto. Vivere in una città ordinata, pulita e costruita bene, tale da rispettare i suoi abitanti sia dal punto di vista fisico-motorio che mentale. Una cosa è svegliarsi colpiti dalla luce del sole, con lo sguardo che punta su una piazza dominata da un edificio dalle forme armoniche, altra cosa è essere svegliati dal rumore di un treno, aprire gli occhi su un buio piazzale schiacciato alle estremità da palazzi decadenti dalle forme simili a grandi mattoni. Ed eccomi giunto, dunque, al punto principale di questo articolo: l’estetica come arte quotidiana del vivere meglio. Ecco perché se vedo qualcuno che cura il suo modo di vestirsi, o osservo delle scarpe dai colori sgargianti e piene di disegni, ascolto la musica da altoparlanti a forma di suino, non dico che è un’assurdità, ma penso sia un modo piacevole per esprimersi e illuminare positivamente il mondo in cui viviamo.
Altre considerazioni immediatamente succesive alle precedenti, entrano in gioco altri fattori: c’è chi non esprime sé stesso, ma rincorre le mode. C’è chi sposta tutte le sue attenzioni sulla superficie. C’è chi indirizza i propri obiettivi e la propria singolarità sugli oggetti, divenendone schiavo o, meglio, facendo in modo che gli oggetti si trasformino nel suo mediatore verso il mondo e le esperienze.
Attingo da un famoso studioso della comunicazione che disse Il mezzo è il messaggio e porto all’estremo una teoria annunciata da Guido Pietrangeli. Quella di McLuhan è stata una gran bella intuizione, il mezzo come messaggio, tale è il potere del mezzo di mediare e dirigere ciò che viene detto. Ma non stiamo forse superando questa ipotesi? Più che dire che il corpo è il messaggio, io direi che è l’oggetto il vero messaggio dei nostri giorni, oggetto che veste il nostro corpo, gli si accosta, lo circonda col potere del suo fascino superficiale. Non è il corpo il messaggio, ma l’oggetto. Oggetto che diventa contenuto del messaggio, ovvero di sé stesso.
Le nostre esistenze sembrano sempre più dominate dalle “Cose”, forma dell’anima, primo appiglio per la ricerca di un sé più forte e reale. Una ricerca che non parte dall’oggetto per una meta lontana, ma lì comincia e lì si ferma: nell’adorazione del simulacro e nella sottomissione al suo potere alientante. E così capita che, ad esempio, voglio iniziare a fare Parkour e invece di andare a fare una bella corsa per allenare il fiato, vado subito a comprare le scarpe adatte, poi una bella maglia, casomai col cappuccio stile “brutti ragazzi di strada”, poi uno zaino di quelli sottili che non dà fastidio mentre salto, poi un pantalone con su scritto Parkour, che faccio vedere a tutti che io sono figo… Tutto si riduce agli oggetti, e l’allenamento chissà quando inizia!

1 commento:

Anonimo ha detto...

molto profondo.....concordo a pieno