17.6.15

Tito di Gormenghast, Mervyn Peake








 5/5 ✮ 












Mervyn Peake nacque il 9 luglio 1911 a Kuling, in Cina, da genitori inglesi (il padre era un medico della London Missionary Society). Probabilmente il periodo cinese, in un ambiente estraneo e in una
condizione di relativa reclusione, fu una delle maggiori ispirazioni per la serie di Gormenghast, a cui l’autore deve oggi solo parte della sua fama. All’attività di scrittore accompagnò infatti, di pari passo, quella di illustratore (famose le sue tavole di Alice nel Paese delle Meraviglie). Penna e matita si alternavano nelle mani dell’autore senza soluzione di continuità. La scrittura di Peake, è barocca, ricca di metafore e dettagliata, ma soprattutto estremamente visiva, allegorica già a partire dalla scelta (dickensiana) dei nomi dei personaggi. Le sue descrizioni fanno un tutt’uno col suo stile caricaturale di disegno, accompagnato da una vena ironica altrettanto presente nella narrazione. Ne fuoriesce uno stile grottesco e surreale, ma mai troppo sbilanciato sul fantastico.
“La ruota del cerimoniale continuava il suo giro tedioso. Il fermento del cuore, tra queste mura, era irriso da ogni ombra dormiente allungata sulla pietra; le passioni, non più grandi di una fiammella di candela, vacillavano sotto lo sbadiglio del Tempo, perché Gormenghast, enorme e ombroso, trionfa intatto sulle altrui rovine”
Vero protagonista del romanzo l’imponente, immemoriale castello, è al centro delle vicende dei mortali personaggi che in un ansito corale danno respiro all’edificio (lo riempiono di vita, come si legge nell’ultimo capitolo). La tradizione delle leggi immobili che governano il castello regola l’incedere della quotidianità e sembra dare forma alle stesse esistenze soffocate dei suoi abitanti, ai loro corpi. Dentro Gormenghast esiste solo Gormenghast. Unico dio imperituro a cui tutto è consacrato. Il Tempo può scheggiarne i contorni, insozzare i pavimenti, inumidire le travi, scrostare le pareti e coprire di edera arcate e portali, ma ciò che è simbolo, Legge, Destino rimarrà sempre intatto. Enorme e necessario a tal punto da comprimere in un unico punto ogni dimensione di realtà, un immane nucleo cosmico primordiale che cancella passato e futuro dei suoi abitanti, nonché ogni idea che si proietti troppo lontano dalle mura. Da dove proviene la popolazione di questo piccolo universo? Quale passato gli impone la sottomissione al rito perpetuo dell’esistenza nel castello? È interessante notare come Lisca accolga frammenti confusi della sua infanzia solo nel momento in cui viene esiliato, come Keda possa fuggire verso spazi altri solo dopo aver adempiuto al suo incarico e, ancora, come Barbacane e il nuovo cuoco vengano ‘dissotterrati’ solo nel momento del bisogno, ruote dentate di riserva riposte in un cassetto.
“La sera era elettrica, irreale, e tuttavia, pensò Keda, forse la realtà è questa, il presente, e la mia vita passata non è stata che un sogno privo di senso”
Eppure questo denso nocciolo atomico, apparentemente invincibile, è vicino all’esplosione. Come la pietra inamovibile è rosa dal lavorio delle acque pluviali, la paziente opera del cinico Ferraguzzo tenta di smantellare l’edificio di regole di cui si è perso completamente (se mai c’è stato) il senso.
Ma le macchinazioni del giovane arrivista non sembrano essere gli unici atti rivoluzionari in fermento: le riflessioni di Fucsia, l’investitura del piccolo Tito, il disagio istintivo del signor Stoccafisso, lasciano presagire ulteriori stravolgimenti. La nascita di una nuova Gormenghast o la sterile distruzione della vecchia. Con questo angoscioso dubbio e con tetro presentimento si abbandona questo primo volume, ansiosi di leggerne la parziale continuazione. Sebbene, infatti, si presenti come una trilogia finita, l’opera di Mervyn Peake manca di un seguito. È composta da due primi romanzi molto coesi tra loro (risalenti rispettivamente al 1946 e al 1950) e da un terzo che se ne discosta (come suggerisce lo stesso titolo: Via da Gormenghast), pubblicato prima in versione incompleta nel 1959 e poi completato postumo, nel 1970, dallo scrittore Langdon Jones sulla base degli appunti di Peake. L’autore soffriva da tempo per il morbo di Parkinson (per il quale fu anche sottoposto a elettroshock) che, indebolendolo e mettendo infine termine alla sua vita, gli impedì di continuare la serie come avrebbe desiderato. Almeno un altro romanzo era stato programmato: il Titus Awakes scritto poi da sua moglie, sulla base di poche pagine di note introduttive dell’autore. 

Curiosità:
La canzone The drowning man dei Cure è ispirata a Fucsia.

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