28.12.13

Revolutionary Road, Richard Yates

Revolutionary RoadRevolutionary Road di Richard Yates
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Un vero capolavoro. Solo con questa affermazione si può dare inizio ad un commento su quest’opera che, almeno in Italia, non ha ricevuto la fama che merita. Si nota subito in Yates la limpidezza e perfezione della scrittura declinata con un tocco di pulizia (a cui Raymond Carver non rimase immune) dal Fitzgerald de Il Grande Gatsby, osannato insieme a Madame Bovary dallo stesso autore. Il linguaggio è semplice (nella sua accezione di positivamente poco barocco, essenziale) e incisivo, derivato da un’attenzione maniacale alla costruzione della frase e alla scelta dei contenuti. Nel mostrarci, insieme, la desolante e tragica superficialità della realizzazione del sogno americano e le dinamiche di coppia (sempre attuali e universali sia nella loro specificità che nel loro essere specchio di un disagio esistenziale) Yates si affida ad ottimi dialoghi ma soprattutto al potere significante dei piccoli gesti. Lo stesso autore parla di come abbia compreso davvero il significato del “correlativo oggettivo” di Eliot grazie alla lezione di Gatsby. Tutto Revolutionary Road sembra un immenso correlativo oggettivo: “[…]qualcuno mi chiese di cosa stessi trattando e io risposi che avrei scritto un romanzo sull’aborto. E quel tipo non capì. Io risposi che avrei discusso tutta una serie di aborti, di ogni tipo ̶ una commedia teatrale abortita, delle carriere abortite, ambizioni abortite, piani e sogni abortiti ̶ tutte mirate verso un vero, reale e fisico aborto”. Ogni dettaglio (non necessariamente un oggetto) è lì per un motivo, pronto a sviscerare un significato (spesso premonitore) più profondo. Compresi i dialoghi, ogni aspetto della narrazione non è mai sterile regalo al realismo. Gli stessi personaggi più volte si mostrano coscienti di come le proprie azioni, i propri movimenti, abbiano un peso sostanziale nelle dinamiche sociali e questo succede in particolare a Frank che sente più forte l’urgenza di comunicare di sé qualcosa di più, per coprire la sua sensazione di inadeguatezza: “[…] era costretto a saltellare e affrettare il passo per reggere all’andatura di Pollock, e si rendeva conto con un certo disagio che quei suoi passetti affrettati, uniti al gesto delle dita annaspanti nel tentativo di impedire alla cravatta di sgusciare dalla giacca, dovevano fare di lui la personificazione del sottoposto”. Il conflitto interiore tra ciò che si è davvero e l’apparenza (il desiderio di conformità ad un’idea di American Life negli anni ’50 e ai tempi dell’amministrazione Eisenhower e della caccia alle streghe di McCarthy) non può che portare alla frustrazione. I personaggi del romanzo sembrano incapaci di operare un reale cambiamento nelle loro vite, riescono solo a subire lo spietato succedersi degli avvenimenti, che incessantemente svela (o obbliga a svelare) le fattezze delle proprie maschere, abbandonandoli alla solitudine dell’intimo luogo senza conforto creato dalle aspettative disilluse. Non solo siamo testimoni del crollo del sogno americano ma perfino dell’aspirazione a trascenderlo. A questi elementi Yates aggiunge una costruzione narrativa frammentata nel punto di vista dei vari soggetti e impreziosita da tocchi da maestro (come quando ci catapulta senza introduzioni nel passato di April, fino ad allora solo accennato) o da una sottile ironia che parte proprio dall’amaro titolo del libro: una rivoluzione che non c’è e non ha mai avuto le basi per essere.

Collegamenti:
The Lost World of Richard Yates
An Interview with Richard Yates 

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