14.8.11

L’isola del Dr. Moreau di Herbert G. Wells

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La hybris dell’uomo che cerca di farsi Dio e ricade invece nella sua più nauseante “bestialità”.
Ciò che già aveva scritto anni prima Mary Shelley col suo Frankestein ma con minore poesia e abilità descrittiva e romanzesca. Qui però le declinazioni morali e sociali toccate dalla fantasia orrorifica (superbia della creazione preternaturale, responsabilità dello scienziato di fronte alla morale, orrore del diverso, lotta di classe, istinto contro ragione, religione, critica alla società industriale) sono più numerose come più numerosi sono i mostri che si aggirano intorno al protagonista.
Riuscito nelle pagine finali dove si racchiude il senso, piuttosto esplicito fin dall’inizio, dell’insegnamento wellsiano: la vera bestia è l’uomo.

A un tratto ebbi la strana impressione di aver sotto gli occhi, nonostante le forme grottesche e grossolane, tutta l’essenza della vita umana, il complicato gioco di istinto, ragione e destino, ridotto all’essenziale.

Nessuno mi credeva; io sembravo agli uomini quasi tanto strano quanto lo ero sembrato alle bestie umanizzate.

Non riuscivo a persuadermi che gli uomini e le donne che incontravo non fossero un altro popolo di animali passabilmente umani, plasmati con l’immagine esterna della nostra specie, ma che sarebbero presto regrediti fino a mostrare ora questo ed ora quel segno bestiale.

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Alcuni spunti interessanti da Anobii:

Da Scapigliato:
“Se Verne è stato solo un fantastico e gigantesco anticipatore della fantascienza, ovvero della “moderna avventura della scienza”, lui che è stato padre della “romantica avventura della scienza”, vista questa ancora e solo come sinonimo di “scoperta” fisica, Wells a buon ragione è colui che ha dato modernità a questa attitudine di scoperta, utilizzando i moduli narrativi della letteratura d’avventura e di quella horror per insidiare la tranquillità borghese con le più feroci denuncie al genere umano.”

“vigorosi quadri di una neo-mitologia parascientifico-infernale, la cui matrice diabolica sta nell’abbinamento forse innaturale tra uomo e animale. Come il capitolo XI, “Caccia all’Uomo”, ugualmente incisivo e dantesco, tant’è che il protagonista dirà a buon ragione di essersi perso in una selva terribile.”

Questa è illuminante:
“Un ritratto spietato che ricorda il più recente paradigma umano dei morti viventi di Geroge A. Romero, svuotati di tutto, di ogni coscienza, di ogni etica, ma incosapevoli affamati della materia, della carne umana: famelici consumatori, ingranaggi zombeschi del consumismo.”

Viducoli fa invece notare:
“Una perla assoluta è il fatto che l’animale più stupido sia l’uomo-scimmia, cioè l’animale più simile all’uomo in partenza, i cui “grandi pensieri” il protagonista ritroverà nelle prediche dei preti.”

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