11.2.10

Gianni Rodari e le favole al telefono

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Io credo che le fiabe, quelle vecchie e quelle nuove, possano contribuire ad educare la mente. La fiaba è il luogo di tutte le ipotesi: essa ci può dare delle chiavi per entrare nella realtà per strade nuove, può aiutare il bambino a conoscere il mondo…

A fine volume un’autobiografia in terza persona di Rodari già dice tutto di questi racconti che sanno sorprendere per la capacità di trasportarci nel cuore della logica infantile. Cuore e logica che seguono le regole della grammatica della fantasia. Binari che non sempre conducono dove ci si aspetterebbe, anzi, spesso deludono le aspettative proprio per la loro natura di giochi e scherzi letterari/favolistici. Così pure è per la morale, che a volte semplicemente non c’è. L’autore non la cerca volontariamente, lascia proseguire tutto come deve andare, seguendo le leggi della fantasia o infrangendole, provocando lo scontro tra fantasia e realtà inaspettata, caso. È qui che Rodari scopre il senso del nonsenso, la serietà dell’assurdo e del gioco che è la vita vivente, sciolta dalle inibizioni e dalle paralisi e restituita alle prove, agli incontri e scontri del suo farsi¹.

1 – Detto da Alfonso Gatto.

A seguire due racconti della raccolta.




La parola piangere
Questa storia non è ancora accaduta, ma accadrà sicuramente domani. Ecco cosa dice.
Domani una brava, vecchia maestra condusse i suoi scolari, in fila per due, a visitare il museo del Tempo Che Fu, dove sono raccolte le cose di una volta che non servono più, come la corona del re, lo strascico della regina, il tram di Monza, eccetera.
In una vetrinetta un po’ polverosa c’era la parola Piangere.
Gli scolaretti di Domani lessero il cartellino, ma non capivano.
– Signora, che vuol dire?
– È un gioiello antico?
– Apparteneva forse agli etruschi?
La maestra spiegò che una volta quella parola era molto usata, e faceva male. Mostrò una fialetta in cui erano conservate delle lagrime: chissà, forse le aveva versate uno schiavo battuto dal suo padrone, forse un bambino che non aveva casa.
– Sembra acqua,– disse uno degli scolari.
– Ma scottava e bruciava, – disse la maestra.
– Forse la facevano bollire, prima di adoperarla?
Gli scolaretti proprio non capivano, anzi cominciavano già ad annoiarsi. Allora la buona maestra li accompagnò a visitare altri reparti del Museo, dove c’erano da vedere cose più facili, come: l’inferriata di una prigione, un cane da guardia, il tram di Monza, eccetera, tutta roba che nel felice paese di Domani non esisteva più.

Il pulcino cosmico

L’anno scorso a Pasqua, in casa del professor Tibolla, dall’uovo di cioccolata sapete cosa saltò fuori? Sorpresa: un pulcino cosmico, simile in tutto ai pulcini terrestri, ma con un berretto da capitano in testa e un’antenna della televisione sul berretto.
Il professore, la signora Luisa e i bambini fecero tutti insieme:
– Oh, e dopo questo oh non trovarono più parole.
Il pulcino si guardava intorno con aria malcontenta.
– Come siete indietro su questo pianeta, – osservò, – qui è appena Pasqua; da noi, su Marte Ottavo, è già mercoledì.
– Di questo mese? – domandò il professor Tibolla.
– Ci mancherebbe! Mercoledì del mese venturo. Ma con gli anni siamo avanti di venticinque.
Il pulcino cosmico fece quattro passi in su e in giù per sgranchirsi le gambe, e borbottava:
– Che seccatura! Che brutta seccatura.
– Cos’è che la preoccupa? – domandò la signora Luisa.
– Avete rotto l’uovo volante e io non potrò tornare su Marte Ottavo.
– Ma noi l’uovo l’abbiamo comprato in pasticceria.
– Voi non sapete niente. Questo uovo, in realtà, è una nave spaziale, travestita da uovo di Pasqua, e io sono il suo comandante, travestito da pulcino.
– E l’equipaggio?
– Sono io anche l’equipaggio. Ma ora sarò degradato. Mi faranno per lo meno colonnello.
– Be’, colonnello è più che capitano.
– Da voi, perché avete i gradi alla rovescia. Da noi il grado più alto è cittadino semplice. Ma lasciamo perdere. La mia missione è fallita.
– Potremmo dirle che ci dispiace, ma non sappiamo di che missione si trattava.
– Ah, non lo so nemmeno io. Io dovevo soltanto aspettare in quella vetrina fin che il nostro agente segreto si fosse fatto vivo.
– Interessante, – disse il professore, – avete anche degli agenti segreti sulla Terra. E se andassimo a raccontarlo alla polizia?
– Ma sì, andate in giro a parlare di un pulcino cosmico, e vi farete ridere dietro.
– Giusto anche questo. Allora, giacché siamo tra noi, ci dica qualcosa di più su quegli agenti segreti.
– Essi sono incaricati di individuare i terrestri che sbarcheranno su Marte Ottavo tra venticinque anni.
– È piuttosto buffo. Noi, per adesso, non sappiamo nemmeno dove si trovi Marte Ottavo.
– Lei dimentica, caro professore, che lassù siamo avanti col tempo di venticinque anni. Per esempio sappiamo già che il capitano dell’astronave terrestre che giungerà su Marte Ottavo si chiamerà Gino.
– Toh, – disse il figlio maggiore del professor Tibolla, – proprio come me.
– Pura coincidenza, – sentenziò il cosmopulcino. – Si chiamerà Gino e avrà trentatre anni. Dunque, in questo momento, sulla Terra, ha esattamente otto anni.
– Guarda guarda, – disse Gino, – proprio la mia età.
– Non mi interrompere continuamente, – esclamò con severità il comandante dell’uovo spaziale. – Come stavo spiegandovi, noi dobbiamo trovare questo Gino e gli altri membri dell’equipaggio futuro, per sorvegliarli, senza che se ne accorgano, e per educarli come si deve.
– Cosa, cosa? – fece il professore. – Forse noi non li educhiamo bene i nostri bambini?
– Mica tanto. Primo, non li abituate all’idea che dovranno viaggiare tra le stelle; secondo, non insegnate loro che sono cittadini dell’universo; terzo, non insegnate loro che la parola nemico, fuori della Terra, non esiste; quarto…
– Scusi comandante, – lo interruppe la signora Luisa, – come si chiama di cognome quel vostro Gino?
– Prego, vostro, non nostro. Si chiama Tibolla. Gino Tibolla.
– Ma sono io! – saltò su il figlio del professore. Urrà,
– Urrà che cosa? – esclamò la signora Luisa. – Non crederai che tuo padre e io ti permetteremo...
– Ma il pulcino cosmico era già volato in braccio a Gino.
– Urrà! Missione compiuta! Tra venticinque anni potrò tornare a casa anch’io.
– E l’uovo? – domandò con un sospiro la sorellina di Gino.
– Ma lo mangiamo subito, naturalmente.
E così fu fatto.

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