6.5.09

L’Aleph

Più riguardo a L'Aleph

La prima cosa che affascina leggendo L’Aleph è la forma. La scrittura di Borges è precisa, sapiente, elegante, ha uno stile che si adatta perfettamente al narrato. Significante e significato s’accoppiano felicemente. Ogni storia porta a galla, nell’oceano misterioso della mente, l’immagine di un antico volume ritrovato sugli scaffali polverosi di una biblioteca sconosciuta. Ogni racconto è fermo nel tempo come una leggenda, ma il tempo invece continua a scorrere tutto intorno ad esso. È l’infinito, infatti, uno dei temi principali toccati dall’autore. – L’infinito che può dare al tempo stesso l’idea di un procedere senza fine come di una monotona immobilità. – L’eternità che incontra l’infimo essere umano. I mortali di fronte all’immortalità. Quale titolo poteva, allora, essere migliore: l’Aleph. “Il mondo inferiore […] specchio e mappa del superiore”. La scrittura eleva l’uomo e lo rende degno della divinità. Il destino, il libero arbitrio, la discendenza, il rapporto con sé e col mondo, sono gli elementi dell’Universale che s’insinuano nell’Individuale.
Ma c’è un altro titolo che sarebbe adatto alla raccolta: labirinti. Quelli della mente, esplicitamente complessi come l’intrigo di nervi del cervello, e quelli apparentemente più semplici del vasto mondo. (Si veda I due re e i due labirinti).
Però, nonostante tutto, qualcosa manca, e l’esattezza di questa ricerca pecca di perfezionismo, mancanza di cuore. Dov’è la passione che (sicuramente presente) ha dato vita a tutto questo? Quella forma che tanto si apprezza esteticamente, quei contenuti tanto eruditi lasciano spazio a qualcos’altro?
In particolare non mi hanno soddifatto i finali.
Racconti preferiti: La casa di Asterione e L’attesa.

A proposito di Borges vi segnalo una rivista letteraria online, che nell’introduzione cita proprio i labirinti e lo scrittore argentino. Non a caso il nome della pubblicazione è Finzioni.

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