24.7.08

La cura dell'acqua - Lo stadio di Wimbledon

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Da un esercizio di un corso per redattori editoriali:

1)
Scrivere una recensione de La cura dell’acqua e una de Lo Stadio di Wimbledon per la rubrica Fogliata di libri del Foglio.


2)
Scrivere una stroncatura professionale de La Cura dell’acqua e una de Lo Stadio di Wimbledon per la colonna Bersagli di Alias.




La cura dell’acqua

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Nel film “Rendition”, uscito alcuni mesi fa nelle sale, si parlava del caso scottante delle torture inflitte ai presunti terroristi da parte del governo americano. Argomento salito all’onore delle cronache anche per la scoperta dell’approvazione di Bush verso tali azioni immorali. Tra le pratiche più utilizzate, pare ci sia il waterboarding. Il prigioniero viene legato e sulla testa incappucciata si fa scorrere dell’acqua, provocando così la sensazione continua di annegamento. Una violenza che, per quanto dura ed “efficace”, non lascia segni evidenti di maltrattamento sul corpo e viene per questo preferita ad altre.
“La cura dell’acqua”, titolo del nuovo libro di Percival Everett uscito in Italia per Nutrimenti, si riferisce proprio a questa terribile tortura. Ishmael Kidder, un padre sconvolto dalla perdita della figlia, una undicenne violentata e uccisa, decide di rapire il principale indiziato e sottoporlo a numerose sevizie, tra cui quella menzionata poc’anzi. È un libro complesso, non per tutti, che ha tanto da dare solo se si ha il coraggio di scavare a fondo nelle sue verità. Se si ha la pazienza, anzi la forza, di resistere ad una forma letteraria capace di stancare il lettore, innervosirlo, provocarlo. Un libro che non racconta solo un’esperienza, ma cerca di renderla il più possibile evidente, vera, reale ‒ una metafora assoluta nel suo essere perfetta coincidenza di forma e contenuto. Everett gioca con le parole tramite un audace sperimentalismo, ma il gioco si trasforma da subito in profonda riflessione sul linguaggio, i limiti e le colpe di questo. Improbabili dialoghi tra filosofi, limerick, scrittura non-sense, disegni, flussi di coscienza, citazioni colte, calembour, sono tasselli che formano un percorso di ricerca tutto incentrato sull’ambiguo rapporto tra significato e significante. E ogni cosa, il dolore di un padre che ha perso sua figlia, la rabbia, la voglia di vendicarsi, l’insoddisfazione per la propria vita, diventa occasione per esplorare questo rapporto, è forzatamente ridotta alle regole e alla logica del linguaggio. Su un altro livello, spesso coincidente con questo, si pone la critica alla società americana e soprattutto all’amministrazione Bush e alla guerra preventiva. L’autore sfoga senza riserbo il suo disprezzo e la sua insoddisfazione verso il presidente avvicinando il romanzo al pamphlet, e variando ancora una volta un registro già straordinariamente eterogeneo. A complicare tale varietà di toni e stili c’è da aggiungere l’alter ego del protagonista, la scrittrice di romanzi rosa Estelle Gilliam, ulteriore mezzo attraverso il quale Ishmael scandaglia le sue emozioni e studia il mondo e l’arte, la finzione e l’apparenza. Ogni problema, però, rimane senza soluzione. Ogni pensiero non sembra avere il fine di risolvere un disagio, ma solo quello descrittivo di spiegarlo e denunciarlo, rendendo chiara l’inconsistenza di tale stessa pretesa.

(2)
Nel suo ultimo romanzo, La cura dell’acqua (Nutrimenti, traduzione di Marco Rossari, pp. 194, € 15,00), Percival Everett ripropone dopo Glifo il suo lato più sperimentale e anarchico, con una scrittura che non si sottomette ad alcuna regola, non concedendo così, nemmeno al lettore, alcun beneficio che potrebbe venire dal rispetto di forme più tradizionali. La storia è quella di Ishmael Kidder, scrittore di romanzi rosa di successo sotto lo pseudonimo di Estelle Gilliam, ma in realtà padre sconvolto dalla perdita della figlia, violentata e uccisa all’età di soli undici anni. Una volta catturato il principale sospettato lo sottoporrà a numerose sevizie, tra cui la “cura dell’acqua” che dà il titolo all’opera. Meglio conosciuta come waterboarding, è questa una pratica (autorizzata da Bush) usata dal governo americano per gli interrogatori dei presunti terroristi, il prigioniero viene incappucciato e gli si versa acqua sulla testa, provocando una continua sensazione di soffocamento. Da queste premesse inizia il delirio del protagonista che lo porta ad esperire il mondo da un punto di vista ossessivo e anomalo, ma estremamente cosciente delle proprie azioni e sensazioni. Tramite una de-costruzione del libro per mezzo di “appunti” (ma anche di limerick, riflessioni filosofiche, scrittura non-sense e disegni) Everett cerca di fondere contenuto e forma in un unico disturbante risultato, con l’intento di rappresentare metaforicamente quella violenza, quella confusione, quella delusione, e tutte le altre emozioni e i significati veicolati dalla vicenda narrata. Le tecniche, gli stili e i numerosi registri adottati, inoltre, servono all’autore per esprimere in maniera esplicita, visibile, il rapporto ambiguo e conflittuale tra significato e significante, una lotta interna senza soluzione che si combatte ogni giorno e a cui partecipa con la sua ipocrisia la popolazione americana, troppo legata all’apparenza e alla falsità delle parole. Eppure solo un’analisi a freddo può rivelare una tale profondità. Il lettore non ha la possibilità di trarre piacere dai giochi linguistici che soffocano la narrazione invece di rafforzarla, né l’occasione di interpretare il testo come vorrebbe il suo autore. Tutto si riduce ad una lettura sbrigativa e annoiata. Il punto di forza del libro avrebbe potuto essere la critica all’America e a Bush (il comportamento del protagonista non è altro che un’allegoria della guerra preventiva), ma perfino questo aspetto, che dovrebbe fungere da struttura portante del testo, viene indebolito dall’ermetismo esasperato di un irrazionale (o forse troppo razionale) Ishmael.
Tra le righe, ad ogni modo, si intravede la presenza di un autore capace, molto coraggioso e ricco di esperienza. Doti che saranno sicuramente più visibili nel suo prossimo libro pubblicato in Italia, Wounded. Una storia più lineare, ma provocatoria e forte com’è consuetudine di Everett.

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Lo stadio di Wimbledon

(1)
Ci sono uomini che rimangono ai margini, nascosti, nonostante abbiano la forza di cambiare le cose, di lasciare un segno. Tra questi vi è Roberto Bazlen, Bobi per gli amici, uomo di grande cultura, scopritore di talenti e consulente di Einaudi e Adelphi. Era amico di Joyce, Saba e Montale. Una “leggenda silenziosa” com’è stato definito da Leonardo Luccone in un articolo di questa testata. Nel suo primo romanzo, Daniele Del Giudice, affronta senza timori la sfida di descrivere l’atmosfera mistica che gravita intorno a questo personaggio, ma anche il tema più complesso della sconfitta della scrittura. Il protagonista vuole conoscere il motivo per cui un uomo, tanto colto e appassionato al mondo della letteratura, come Bazlen non abbia mai ricercato una propria affermazione artistica. Spinto da tale curiosità si reca a Trieste dove incontra alcune delle persone che più gli furono vicine. Per poi giungere, nelle ultime pagine, a Londra luogo in cui un’incompleta epifania pone le basi per le sue future conclusioni riguardo alla domanda che si era posto e al significato della stessa.
Lo stile di Del Giudice, ellittico, puntuale, ha un ritmo blando e costante che si adatta perfettamente alla descrizione dell’umore del protagonista. Attraverso i suoi occhi il lettore vive non tanto l’esperienza di una ricerca oggettiva di fonti, quanto quella metatestuale ‒ e di declinazione morale ‒ di un significato profondo dello scrivere. Una lingua che pensa a sé stessa, un’inerzia autoriflessiva che si contrae sull’oggetto dando forma ad un procedere attenuato, onirico. Non a caso l’addormentarsi è una costante del romanzo, così come il fantasticare, che porta però ad uno scontro tra immaginazione e realtà. Bazlen aveva fatto una scelta, la vita prima di tutto, la sua opera la sua vita. Del Giudice invece, come il suo protagonista, decide diversamente, affronta l’impresa della scrittura, capace di proteggere la memoria e usufruirne al tempo stesso a favore di un percorso individuale.
Si potrebbe definire “Lo stadio di Wimbledon” un romanzo di formazione, ma è perlomeno inconsueto: c’è l’inizio di una maturità che trova le sue basi nelle ultime pagine, ed arriva a compimento in un futuro che non è narrato, ma emerge solo indirettamente dalla presenza stessa del testo. Il viaggio, iniziato come un vagabondaggio dalla meta incerta, svela a poco a poco il suo reale significato, la ricerca di qualcosa di personale, intimo, ovvero il centro vitale del Bildungsroman.

(2)
Lo stadio di Wimbledon è uno di quei romanzi che cede sotto il peso delle troppe, entusiastiche, critiche che sono state fatte a riguardo. È un buon libro che nasce da un’idea interessante, ma non è all’altezza delle recensioni. Tutto inizia dall’intento di scrivere un romanzo su Roberto Bazlen, una vera leggenda nel panorama culturale italiano del Novecento, amico di Joyce, Saba e Montale. Un intellettuale che si teneva in disparte e che per questo è rimasto sconosciuto ai più. Il protagonista del romanzo si reca a Trieste e poi a Londra per incontrare le persone che gli sono state più vicine. Particolarmente interessante è l’incontro con Gerti e Ljuba muse del poeta Montale. La domanda che fa da sfondo al viaggio intrapreso è «perché non ha scritto». Una curiosità che non può trovare una risposta soddisfacente, poiché è un sintomo di un’altra ricerca in atto, quella personale del rapporto con la scrittura. Se Bazlen, nonostante la sua profondissima conoscenza dei libri, sceglie di vivere la vita e fare di essa la sua opera, dedicandosi agli altri più che a sé stesso, al contrario il protagonista prende la decisione opposta, svelata solo indirettamente nel romanzo: la scrittura sarà il suo modo di conoscersi. È su queste basi che poggia e trova la sua ragion d’essere lo stile utilizzato dall’autore. Una narrazione caratterizzata da ritmi blandi e monocorde che generano un’atmosfera onirica contratta spasmodicamente sull’oggetto.
Il problema è che un tale sostrato di elementi emerge solo tramite una riflessione a freddo. La realtà della lettura è un’altra: un libro perfetto sotto il piano teorico, ma estremamente lento, dalle descrizioni troppo dettagliate e in sostanza inconcludente, nella prassi. Insomma, un bel libro, ma che sicuramente non regge il confronto con quanto è stato detto su di esso. I comportamenti del protagonista, più che renderlo una persona profonda e affascinante, non fanno altro che caratterizzarlo come un uomo incapace di instaurare rapporti sociali solidi, fondati sulla spontaneità e sulla comunicazione. Per lui, non c’è una vera scelta perché, a differenza di Bazlen, non sarebbe capace di relazionarsi agli altri in modo da fungere per loro da sostegno e aiuto nella vita. La formazione del narratore è incompleta, dunque, perché il suo prediligere la scrittura non è il risultato di una scelta, ma il condizionamento della propria personalità che non è maturata, e che con la scrittura reitera le proprie azioni, sintomo di limitatezza nel rapporto con il mondo. È interessante notare come le probabili intenzioni dell’autore, quelle lungamente descritte in altre recensioni e sopra riassunte, non abbiano raggiunto il risultato voluto. Il cerchio, che sembra chiudersi, in realtà rimane aperto…




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